L’eccedenza del messaggio e l’invito al medium a farsi “luogo” culturale d’Agorà. Riflessioni sul recente libro di Paolo Pagliaro.

30 Agosto 2009 L’eccedenza del messaggio e l’invito al medium a farsi “luogo” culturale d’Agorà. Riflessioni sul recente libro di Paolo Pagliaro.

Mi piace leggere i libri non come ‘contenenti’ di scritture statiche, che ormai hanno detto quanto è confermato nella pagina scritta, ma come proposta d’intenzione di una voce autoriale, che prende parte ad una discussione implicita, verso cui il suo “punto di vista” si compone come risposta. Nelle scienze umane accade, però, che le risposte ai quesiti intorno ai quali prende posizione lo scrittore di un libro, non sono atti discorsivi che chiudono l’argomento su cui si pronunciano: lo aprono, invece, in un “inoltre” di tematizzazione, facendo scorgere la possibilità di altre domande ancora da parte del lettore.
Avviene, di conseguenza, che il libro non finisce, promuove anzi un ritornare a ridiscutere, diventando un “luogo” di dialogo entro cui il lettore si chiede, dopo le risposte dello scrittore, oppure risponde con lui alle domande che egli stesso si pone, man mano che il suo scrivere diventa confronto su tesi, dialogo su ragionamenti.
Confesso che il libro, appena pubblicato, di Paolo Pagliaro, Sociologia dell’organnizzazione dei media (Manni, 09), non mi acquieta nel mio voler sapere, mi intriga, perciò, a rimuginare dentro di me le questione che egli coraggiosamente mette in questione con uno stile misto tra critico e narrativo, in cui parlare di mass media significa tracciare una propria autobiografia, avente come percorso peculiare di vissuto e di esperienza il modo come fare televisione e fare radio da “editore radiotelevisivo” qui nel Salento, con un fine nobile, anzi con una “missione sociale”, consistente, dichiara con passione l’autore: “nel servire per la crescita della persona, per sostenere la famiglia e la scuola nell’impegno formativo, per fortificare la cittadinanza attiva, la responsabilità civica e i comportamenti prosociali, per combattere le disuguaglianze, per la tutela e la promozione dei diritti […] per realizzare una democrazia vera, più forte, a livello locale e globale” (p.33).
Confesso che nel leggere queste parole, apparse fin nella prima pagina della Prefazione e poi con insistenza ripetute nel corso del libro, che vuol essere una dichiarazione di Etica della comunicazione massmediale, sostenuta non solo teoricamente come riflessione sull’atto del comunicare, ma testimoniata come scelta personale di fare comunicazione radiotelevisiva, mi sono entusiasmato, con un entusiasmo in crescendo, man mano che la lettura incontrava parole semanticamente dense, che aggiungono all’etica del porgere, la responsabilità del contribuire, in quanto, e mi piace dirlo con le parole di Pagliaro: “la televisione può contribuire nella formazione o nel consolidamento dell’identità di un individuo, di un gruppo, di un popolo. La mia televisione, Telerama, che ho definito televisione “indies”, è nata proprio per questo: per valorizzare e rafforzare il legame con il suo territorio, con la sua comunità di appartenenza” (p.41).
“Benedetto Pagliaro!”, mi sono detto tra me, “come con la sua prosa non molto libresca e tanto molto testimoniale mi apre dubbi su alcune certezze, apprese dai libri!” La “mia” televisione “indies” , volta nella “direzione del recupero e valorizzazione dei nostri valori identitari” (p. 80), si pone in polemica contro “l’omologazione culturale”, prosegue nel discorso l’autore, così come cerca di motivare l’attenzione verso i ragazzi e i giovani, al fine di fungere da strumento dialogico di formazione.
A questo punto della lettura, ho fatto come il don Abbondio manzoniano, ho chiuso il libro, “tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra”, ho alzato il viso per riflettere (come di solito si fa, quando si leggono pensieri interessanti) e subito mi è venuta “in mente” la “mutazione antropologica” di pasoliniana memoria, causata proprio dall’azione omologante della TV, che con la sua “sottolingua” (Pasolini) per nulla espressiva, perché soltanto comunicativa, dunque normativa per quanto riguarda la grammatica e strumentale nei confronti del lessico, rivolto ad una società ridotta ad opinione pubblica, devitalizza la varietà linguistica a pura monotonia modulata come “discorso parlato serio”, creato ed elaborato dalle aziende che promuovono linguaggio pubblicitario e persuasivo, per il quale non è distinguibile un borghese da un proletario, un fascista da un comunista (siamo negli anni 60 primi anni 70 del secolo scorso, che ricordo con tanta nostalgia!). Mi sono rammentato pure di Popper, del suo grido contro la “cattiva maestra televisione”, il più “grande asilo d’infanzia”, responsabile del nuovo “homo videns”, indifferente, disumanizzato, aggressivo, perché sin dall’infanzia è costretto a vedere “ingenti dosi di violenza” che ne turbano la fantasia e la coscienza in formazione.
Ritornai a rileggere le pagine di Pagliaro, dove è scritto che le riflessioni da lui riferite provengono dal “campo” d’indagine, il mondo radiotelevisivo, in cui egli vive da dentro come “etnografo” raccoglitore di dati informativi (“I punti essenziali della mia ricerca etnografica all’interno dell’organizzazione mediale sono stati l’individuazione di un disegno della ricerca; l’accesso al campo; le relazioni sul campo; la raccolta e la registrazione dei dati; l’analisi dei dati; la scrittura” – p. 37), come editore, organizzatore, manager, direttore, come leader, che sono micro-ruoli partecipativi che permettono di “interpretare” la televisione polifonicamente, cioè da molteplici punti di vista, grazie ai quali non si descrive il pianeta massmediale come oggetto subìto, bensì quale possibilità aperta alle più ampie prospettive di intervento in un territorio.
Intervento comunicativo, ovviamente, non limitato alla sola informazione, neppure alla solita rappresentazione d’intrattenimento.
Già trasformare l’accadere in fatto e l’evento in notizia presuppone un lavorìo culturale di grande importanza per la crescita della coscienza collettiva, per la reale pratica della democrazia: il giornale, la televisione, la radio sono luoghi della narrazione, in cui si significa l’altrimenti passare senza coscienza storica; in cui si interpreta l’altrimenti accadere senza attenzione.
Raccontare il succedersi delle cose nel quotidiano e nel comunitario è la prima azione culturalizzante di una collettività: è nel raccontare, in effetti, che la realtà muta ed anonima diventa il teatro del mondo, in cui agiscono personaggi, in cui subiscono vittime, in cui si ritualizzano soprusi ed ingiustizie, in cui si sottintendono colpe, prevaricazioni, limitazioni, reclusioni. La televisione “mostra” invitando al racconto chi guarda; “parla”, invitando al comprendere chi ascolta: ovviamene, nell’interesse di uno sguardo che cresca non nella persuasione, ma nel poter vedere in profondità; nell’interesse di un udire che non sia assordato dai mezzi di convinzione, ma nel poter ascoltare in sensibilità, in verità plurale di voci e di proposizioni interpretative.
Il fine è proporre media “caldi” (questo concetto di McLuhan lo adopero forse troppo liberamente), capaci di cogliere umanità nella “freddezza” in sé neutrale del medium; così come offrire notizie “cotte” (ricordate la distinzione lévistraussiana “cotto-crudo”, a proposito delle società senza neppure il medium della scrittura?), cioè comunicate con stile e preparazione culturali, pur nel “crudo” degli accadimenti rozzamente compresi, superficialmente spiegati.
Paolo Pagliaro, uomo “caldo” che agisce con passione, propende per una televisione militante, libera, plurale, anche sincera, leale, capace addirittura di trasformare la comunità in identità, che, acculturata con l’ascolto ed il vedere “aperto” all’indizio e motivato con il problematico, diviene identità accogliente, “ospitale”, non, pertanto, chiusa in una logica da tribù. Anzi, il fine è di trasformare tramite la televisione la Comunità in Communitas: cioè in società solidale che risponda con Cuore Amico ai bisogni di soggetti che con la loro “storia di vita” “riscaldano” pure la tecnologia, trasformandola, perché no, in “agorà” di un nuovo umanesimo interfamiliare, interculturale, internazionale. Umanesimo dell’altro uomo, avente il volto dell’altro come icona di un visibile, ravvicinato televisivamente pur nell’invisibilità della distanza.
A ragione, Paolo Pellegrino introduce efficacemente il libro con l’immagine di Hermes, messaggero degli dei presso gli uomini, figura allegorica del medium della comunicazione. Hermes o Ermete era un dio ambiguo, perché assisteva i confini ed i viaggiatori, cioè coloro che oltrepassano i confini; rappresentava la letteratura, ma pure l’astuzia propria dei ladri e dei bugiardi.
L’ambiguità riguarda senz’altro la natura duplice della comunicazione, che può essere veritiera fino all’emozione, come una poesia lirica, oppure illusoria fino alla menzogna, come una prosa persuasiva.
Ebbene, la televisione “secondo Pagliaro”, o la televisione realizzata da Pagliaro, sembra pretendere da Hermes di comunicare il lato non ambiguo, ma solo umano, del suo essere soggetto-messaggero, magari senza farsi intermediario degli dei, ma solo degli uomini, tra gli uomini: così non ci sono oscurità da chiarire, né sensi nascosti da fraintendere. Ci basta l’uomo che parli all’altro uomo, non importa se distante: la televisione avvicina e rende visibile e rende udibile oltre il nostro confine. Non è questo, già, di per sé, un fatto tanto umano, troppo umano, da sembrare ‘divino’?

di Prof. Carlo Alberto Augieri
Docente di “Teoria della letteratura”
Università del Salento