La trappola dell’Auditel e la tv di qualità

20 Novembre 2007 La trappola dell’Auditel e la tv di qualità

Cosa non si fa per lo share?

Una premessa la tv ha bisogno del pubblico.
Ma l’Auditel è solo un termometro statistico, eppure distrugge e costruisce carriere, influenza i fatturati.
È preoccupante che questo strumento al servizio del marketing abbia assunto il ruolo improprio di giudice insindacabile.

Ecco perché: Auditel considera in prima battuta un gruppo di famiglie, dalle quali estrae quelle sui cui televisori vengono applicati i dispositivi.
Probabile che le famiglie più disponibili siano le più teledipendenti, il che introduce una distorsione.
Un campione, per essere tale, deve invece rappresentare l’universo di riferimento: casualità, stratificazione, distribuzione geografica, caratteristiche strutturali delle famiglie e del loro “parco” televisivo. In più il campione resta lo stesso almeno per cinque anni: chi accetta il meter lo fa per spirito di servizio o come “mestiere”? E’ difficile individuare e casomai influenzare qualcuno dei possessori dei meter?
Il risultato in termini di numeri si chiama ascolto medio, ed è dato dal rapporto tra il numero complessivo di spettatori sintonizzati su un programma e la sua durata.

Ma sappiamo bene che davanti al televisore si può mangiare, si può discutere, si può dormire… Come si fa ad individuare le motivazioni soggettive, i valori sociali o morali che lo spettatore elabora nell’interpretazione e nell’uso dei programmi?
Insomma, l’Auditel non è un’indagine di tipo qualitativo su un campione variegato, ma è assunta a indice di gradimento dei programmi: come se accendere la tv significasse automaticamente vederla, o sentire le voci in tv equivalga ad ascoltarla.
Niente di più sbagliato.
La smania di ascolti, ci sta togliendo l’entusiasmo di lavorare, sta diffondendo un modello di tv non più fatta per il pubblico, ma per gli ascolti.

Le funzioni creative sono venute meno: oggi si ha paura di cambiare, di perdere la “poltrona”, e non si fa altro che sfornare programmi che fanno solo da contorno a bellissimi spot. La questione chiama in causa in primo luogo gli editori.
È il senso di responsabilità sociale la guida principale, e il problema è proprio la noncuranza con la quale si operano scelte profondamente sbagliate che poi si ripercuotono inevitabilmente sui nostri fruitori.
Per questo, condividendo il contenuto dell’editoriale di Tivù ( settembre 07 ), dico “In televisione la qualità prima di tutto: non solo Auditel, sì al Qualitel”: non perché non voglio che ci sia rilevazione degli ascolti, ma perché ne voglio di più ( mancano, ad esempio, i dati provinciali );voglio rilevazioni più ricche e soprattutto più articolate.
L’alternativa alla dittatura dell’Auditel è possibile: il Qualitel permetterebbe di rinforzare le garanzie di veridicità dei dati, tenendo conto delle caratteristiche sociologiche dei fruitori, in modo che il giudizio dell’Auditel abbia in nuce anche un elemento di gradimento.
Non chiedo di sminuire il ruolo dall’Auditel: è bene che conservi la sua funzione di metro degli ascolti pubblicitari, ma è necessario affiancarlo con un’attenta verifica della qualità.
E’ chiaro che se questa operazione vale come monitoraggio della qualità, è importante che a monte diventi un orientamento editoriale: bisogna cominciare a porsi il problema non solo di grandi ascolti, ma anche della loro qualità.
Se si innesta un circolo virtuoso, per cui le produzioni, sapendo che c’è il Qualitel, dall’inizio scelgono i contenuti da trasmettere in un certo modo, questo diventa un passaggio significativo per tutti noi editori.
Si terrebbe conto di come la gente ha valutato un programma, fino a rilevare le motivazioni soggettive che spingono l’utente a fare quella scelta.

L’obiettivo è rendere protagonista il telespettatore.
Con l’avvento del digitale avremo a disposizione una platea infinita che potrà orientare il nostro modo di lavorare.
Il tutto su un doppio binario: un sistema di rilevamento tradizionale “face to face”, e un sistema via internet, attraverso spazi appositi (siti) che permetteranno di avere a disposizione un sistema di rilevazione costante, che allargherà la partecipazione dell’utente.
E’ chiaro che non si disporranno sanzioni per coloro che avranno un indice Qualitel basso, o non si penalizzerà chi sceglie di intraprendere percorsi non in linea con questi valori: ognuno sarà libero di fare ciò che vuole, ma perché arrendersi all’idea che sia l’Auditel il tribunale, e invece non rendere il campione stesso giudice delle scelte future?
Qualitel significa ampliamento, e non annientamento dell’Auditel.
Al di là della concreta realizzazione di questo importante risultato, alcune tv locali scelgono di offrire uno specifico orientamento alla comunicazione: sono le televisioni “Indies”, termine da me coniato con cui intendo riferirmi ad un modello di tv che coniuga innovazione e tradizione, che si pone al passo con i tempi, ma nella direzione di una decisa e più accanita difesa dei valori identitari che ci appartengono, contro la sempre più incalzante omogeneizzazione culturale.

A differenza delle emittenti “omologate”, che puntano per lo più su format globalizzati, fanno poca autoproduzione, hanno spazi creativi ridotti, ci propongono, quindi, format in cui dominano programmi delle grandi multinazionali americane (soap opera, reality show, wrestling), giapponesi (cartoni animati), brasiliane (telenovelas), o in alternativa programmi che scimmiottano i format internazionali, che non fanno altro che deprimere la nostra creatività e la nostra fantasia.
Contrariamente a questa tendenza la tv “Indies” punta su autoproduzioni di qualità, creando una “family tv” capace di regalare momenti di interesse per tutti i componenti della famiglia, ma che soprattutto si inserisce in una scelta strategica che rifiuta l’omologazione, sentendo forte ogni giorno la responsabilità sociale che gli strumenti di comunicazione hanno nei confronti del proprio pubblico.
Questa scelta richiede senza dubbio sforzi maggiori e costi elevati (apparecchiature, personale…), ma è vero anche che i suoi effetti si riverberano positivamente: si crea forza lavoro, si costruiscono professionalità, si lascia spazio ai talenti locali, alla meritocrazia, creando opportunità di realizzazione per i nostri giovani, contro la sempre più pressante “fuga di cervelli”.
Il nostro impegno è insomma quello di cogliere gli aspetti positivi della globalizzazione (standard qualitativi, impianti tecnici, innovazioni tecnologiche, tecniche di montaggio, grafica, linguaggio …) e di farli sposare con i valori della nostra comunità, con la nostra identità: glocal, attraverso una stretta connessione tra globale e locale.

Rifacendomi alla sociologia, il nostro obiettivo è un tentativo di opporci al “media imperalism” (John B. Thompson), e di ribattezzare il concetto di “indigenizzazione” (Arjun Appadurai), da cui tv “Indies”, per significare l’impegno da parte delle singole e diverse società locali ad appropriarsi e rielaborare le forme e le espressioni delle altre culture con le proprie specificità. Non basiamo il nostro lavoro solo su “freddi” numeri dell’Auditel, ma occorre discostarsi dai modelli “trash” che dominano invece incontrastati i palinsesti quotidiani, e attraverso un impegno culturale e assiduo, proporre contenuti validi e formativi.
E’ l’identità, è il forte radicamento sul territorio la chiave di successo, e la base di lavoro si chiama Qualitel, che non registra solo il consenso del pubblico.
L’impegno, infatti, è quello di non trascurare mai la missione culturale che ci si è impegnati a svolgere, non si mira ad avere un pubblico solo numeroso, ma ad averlo fedele, soddisfatto, in base al target di riferimento.

E’ bello pensare al proprio pubblico non come a un gruppo di individui anonimi e passivi che equivalgono a un certo numero di contatti pubblicitari, ma ad individui reali, dotati di un volto, un nome e una storia, a noi fedeli, che ogni giorno possano riconoscersi in questo modo di fare televisione.
Chiunque guardi la tv fa bene a cercare ciò che gli piace, ma non sempre una cosa vista da molti a quei molti è piaciuta e lascia il segno: chi guarda e sente la televisione non ha niente da raccontare, chi la vede e la ascolta può imparare tanto, ed è a questo tipo di pubblico che noi ci rivolgiamo.
L’Auditel non è un dogma: impegniamoci a guadagnare la dignità di essere credibili, non per un puro atto di fede, ma sulla base di una scelta consapevole…

(pubblicato su Il Paese Nuovo)

di Paolo Pagliaro

Lecce, 20 novembre 2007