La “glocalità” di Mixer Media

24 Novembre 2007 La “glocalità” di Mixer Media

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È convinzione diffusa che, nell’epoca delle immagini del mondo e dell’estetizzazione diffusa, quello che ci colpisce negativamente è la perdita del “principio di realtà” e la conseguente assenza di ogni conflitto, dal momento che questo si dà nel dinamismo della realtà storica e non nel mondo onirico delle immagini.
Da ciò l’esigenza di porre un limite alla derealizzazione, cioè alla perversità dell’impero della finzione nella nostra società dello spettacolo e dei simulacri.
Come dopo l’indigestione di ermeneutica e la teorizzazione della virtuale infinità delle interpretazioni di un unico testo sorse il bisogno di fissare un limite dell’interpretazione, così oggi, dopo l’ubriacatura del potenziale liberatorio delle immagini s’avverte la necessità di ritrovare una bussola per orientarci nel mare magnum dell’indistinto, di quella zona grigia dove s’interseca e si confonde la realtà e finzione.
Un richiamo in questa direzione sembra sovrintendere al libro di Pagliaro che qui si presenta. L’orizzonte d’attesa, per dirla con Gadamer, è pienamente centrato da questo testo che – come recita il titolo – intende programmaticamente mettere in sinergia e porre a confronto le due dimensioni dell’emittenza televisiva, globale e locale, dove, a dire il vero, non può sfuggire l’energica rivendicazione del ruolo e della funzione della realtà locale, dal momento che Pagliaro è l’imprenditore di due emittenti salentine.
Non a caso l’osservatorio privilegiato è quello della sua realtà aziendale, “Mixer Media”. Il terreno del confronto è istituito a partire dell’informazione e dalla comunicazione intesi come “fattori di sviluppo”.
Il libro si apre con un’interessante e densa panoramica intorno alle principali posizioni filosofiche sul tema della comunicazione massmediatica nell’orizzonte teorico del Novecento, dalla sentenza nietzscheana sulla “tabulazione del mondo” alle tesi heideggeriane sul mondo costruito come immagine e la radicale differenza che Essere e tempo manifesta nei confronti della comunicazione ridotta a chiacchiera, fino alla drastica e ruvida condanna della comunicazione nei media cui ha dato voce Mario Perniola con il suo pamphlet contro la comunicazione, che sostiene il singolare assunto per cui “la comunicazione è l’opposto della conoscenza” ed è “nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti”, una sorta di riformulazione attualizzante del vecchio anatema adorniano che intenderebbe esorcizzare i rischi di conformismo, banalizzazione e omologazione dell’industria culturale.
Ad equilibrare le posizioni non mancano in questa rassegna critica, i richiami in positivo alla medium theory di Marshall McLuhan sugli strumenti del comunicare fino alla più recente letteratura sull’argomento.
Ma la parte preponderante del saggio è occupata dall’esperienza imprenditoriale dell’autore nel campo radiotelevisivo, dove evidentemente la televisione è il “medium dominante”.
Dopo un primo approccio al settore su cui sono concentrati e accaniti tutti gli strali di tanti critici, quello dell’adversting, cui Pagliaro replica affermando che la pubblicità è invece “motore dello sviluppo sociale”, seguono una serie di capitoli in cui l’autore racconta e illustra, con dovizia di particolari, le peculiarità che caratterizzano l’esperienza locale di “Mixer Media”: i mezzi radiotelevisivi del Gruppo, il palinsesto televisivo e radiofonico come costruzione d’identità, gli eventi promossi in diretta, la nuova linea dell’informazione multimediale, le 10 battaglie per la crescita del Salento come modello di informazione militante, la multiculturalità come tratto distintivo di un impegno civile e solidale, il rapporto tra informazione e politica al rapporto tra informazione e politica all’insegna di un equilibrato nesso tra diritto di cronaca e rispetto della privacy, che Pagliaro declina all’insegna del garantismo e della salvaguardia dell’ “onore” del cittadino.
Chiude il libro un’ultima parte, in cui sono illustrate le teorie e le tecniche di organizzazione dell’impresa televisiva e, in questo quadro, l’esperienza specifica di “Mixer Media”, rilevandone la qualità aziendale, le strategie e il management.
Com’è agevole constatare, si tratta di temi e aspetti dell’impresa televisiva di sicuro interesse e all’altezza delle tecnologie innovative che spingono verso il processori digitalizzazione dei segnali e di intersezione con Internet, consentendo l’interattività e quindi la possibilità per l’utente di esercitare un’influenza sul contenuto e la forma della comunicazione mediatica in un circolo in cui utente, medium, messaggio e ambiente interagiscono.
Tutti argomenti di grande attualità, ancorché rivisitati partendo da un’angolazione in cui l’obiettività dell’esposizione si sposa con la focalizzazione di un’esperienza particolare. Se il libro fosse solo questo, si tratterebbe di un autoritratto dell’autore e/o di un’autopresentazione della propria impresa e dei suoi indubbi meriti.
Circola invece nel saggio di Pagliaro una passione autentica e un’intenzione esplicitamente dichiarata, che aggregherei intorno a tre fuochi: la missino educativa della televisione, il modello televisivo che Pagliaro con un neologismo di suo conio chiama “indies” e l Qualitel come indicatore di qualità dei programmi, chiamato a sostituire l’attuale Auditel.
Relativamente al primo di questi fuochi, l’autore rileva che dopo un periodo, corrispondente grosso modo agli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo, in cui erano diffuse teorie in qualche modo pessimistiche e catastrofiche sull’impatto dei media sulla società, a partire dagli anni Settanta e ancor più nei due ultimi decenni del Novecento l’orientamento sembra essere cambiato. Ciò non toglie che molte trasmissioni, dalle televendite a molte fictions e pseudodibattiti, siano al limite del trash.
Contro questa deriva verso il nonsense e la stupidità insorge convintamene Pagliaro, proponendo il paradigma di una televisione di qualità.
L’alternativa allo squallore di molti programmi è quella di cercare di fornire contenuti umanamente attraenti e che diano una soddisfazione profonda, rifiutando la falsa distinzione tra una distinzione fra una “televisione pedagogica” e una “televisione di intrattenimento”. La televisione, afferma l’autore, “è sempre pedagogica, perchèp sempre propone valori, sempre influisce su atteggiamenti, desideri, aspirazioni, comportamenti”.
Il tema clou del libro è l’idea della televisione indies, fortemente radicata sul territorio ed in grado di rispettare e rafforzare l’identità. Si tratta di un neologismo con il quale l’autore intende indicare una precisa filosofia aziendale che coniuga l’innovazione e la tradizione, che si pone al passo con i tempi, ma nella direzione di una decisa ed accanita difesa dei valori autoctoni, dei sistemi di significato che appartengono alla comunità in cui è inserita contro l’omogeneizzazione e l’omologazione culturale e l’impatto invasivo della globalizzazione.
Strettamente intrecciata con la costitutiva dimensione etica e valoriale della televisione è, infine, la questione della qualità dei programmi e del sistema di misurazione degli ascolti, che ovviamente spesso e volentieri non coincide con la customer satisfaction, la reale soddisfazione dell’utente. Si tratta di un problema molto dibattuto tra gli addetti ai lavori, che hanno coniato il termine Qualitel contrapposto all’attuale indicatore degli shares, l’Auditel, considerato un termometro statistico inattendibile e fuorviante.
“Basta Auditel, si al Qualitel”, insorge Pagliaro. Con questo egli non intende criminalizzare l’Auditel.
Ciò che a suo avviso è preoccupante riguarda il fatto che l’Auditel è nato come strumento al servizio del marketing ed ha poi invece assunto un ruolo che in realtà gli è improprio, considerato che è diventato il giudice insindacabile dell’intera programmazione televisiva, il “tiranno” che condiziona i comportamenti di chi fa televisione, rendendolo suoi “schiavi”.
A questa amara conclusione Pagliaro oppone una fine osservazione, secondo cui “guardare la tv non significa automaticamente vederla, così come sentirla non vuol dire ascoltarla”.
In ogni caso, non è che egli non voglia la rilevazione degli ascolti; è che ne vuole di più (mancano i dati provinciali) e desidera sondaggi più ricchi e soprattutto più articolati, più in favore dei cittadini.
Spero di aver colto l’essenziale di quest’opera prima di Pagliaro; resta comunque l’impressione che, al di là delle molte cose che non vanno nell’universo caotico e luccicante dei media, ciò che alla fine si coglie in questa articolata analisi sottende un’appassionata difesa delle potenzialità positive del mezzo televisivo di cui Pagliaro ci propone, senza avvedersene, un’emozionante apologia.

di Paolo Pellegrino