Sì al Qualitel

10 Gennaio 2008 Sì al Qualitel

 

Che cosa non si fa oggi per qualche punto di “share”?
E’ una stagione davvero interessante. Lavorare in televisione equivale a sottoporsi all’inutile gara quotidiana del “ vince/ perde”: una sorta di “pietrificazione” dei rapporti a favore di qualcuno e a sfavore di qualche altro.
Una premessa va fatta: la televisione ha bisogno del pubblico, altrimenti muore.
Ma l’Auditel è solo un termometro statistico, non è la televisione. L’Auditel non fa televisione.
Ma come ci spieghiamo che è proprio sull’Auditel che si distruggono e si costruiscono le carriere, sull’Auditel si fanno o non si fanno i fatturati pubblicitari?
Il mio intento non è quello di criminalizzare l’Auditel.
Ciò che a mio avviso è preoccupante è che l’Auditel è nato come strumento al servizio del marketing, e ha poi invece assunto un ruolo che in realtà gli è improprio, visto che è diventato il giudice insindacabile dell’intera programmazione televisiva, il “tiranno” che condiziona i comportamenti di noi che facciamo televisione, che ci rende suoi “schiavi”.
Credo che con la più grande semplicità possibile valga la pena di capire se prima di tutto il meter è uno strumento attendibile rispetto all’ascolto, e poi se è uno strumento utile per il gradimento.
Come lavora in concreto l’Auditel? L’Auditel considera in prima battuta un gruppo di famiglie, per andare poi a catturare le famiglie presso le quali installerà il meter. Da queste famiglie estrae un gruppo sui cui televisori vengono applicati questi dispositivi. Naturalmente non molti sono disponibili a farlo, il che introduce una distorsione non banale.

E’ probabile che le famiglie più disponibili siano più teledipendenti, il che introduce un’altra distorsione. Ma soffermiamoci sul campione. Il campione per essere tale deve essere rappresentativo dell’universo di riferimento, deve riprodurre in piccolo tutte le caratteristiche della popolazione che vuole studiare. I criteri dovrebbero essere quelli della casualità e della stratificazione, che tengono conto della distribuzione geografica, delle caratteristiche strutturali delle famiglie e del loro “parco” televisivo.
Ci chiediamo: come si possono registrare dati attendibili se il campione di riferimento è sempre lo stesso almeno per cinque anni consecutivi; se c’è il dubbio che chi accetta il meter può farlo o per un vero e proprio spirito di servizio o come un “mestiere”; se non è troppo difficile poter individuare e casomai influenzare qualcuno dei possessori dei meter?
Il risultato in termini di numeri si chiama ascolto medio, ed è dato dal rapporto tra il numero complessivo di spettatori sintonizzati su un programma e la durata del programma.
Ma sappiamo bene che davanti al televisore si può mangiare, si può discutere, si può dormire… Come si fa ad individuare le motivazioni soggettive, i valori sociali o morali che lo spettatore elabora nell’interpretazione e nell’uso dei programmi televisivi?
Insomma, l’Auditel non è un’indagine di tipo qualitativo su un campione variegato, ma a quanto pare fa votare il gradimento dei programmi: come se accendere la tv significa automaticamente vederla, o sentire le voci in tv equivalga ad ascoltarla.

Niente di più sbagliato.
L’ossessione all’Auditel, la smania di ascolti, ci sta togliendo l’entusiasmo di lavorare, sta diffondendo un modello di televisione non più fatta per il pubblico, ma per gli ascolti, che nella maggior parte dei casi ci sta offrendo prodotti di scarsa qualità, talvolta davvero offensivi per l’intelligenza delle persone.
Le funzioni creative sono venute meno: oggi si ha paura di cambiare, di perdere la “poltrona”, e non si fa altro che sfornare programmi che fanno solo da contorno a bellissime pubblicità.
La questione chiama in causa in primo luogo coloro che operano nel settore della comunicazione, ed in particolare gli editori televisivi. È il senso di responsabilità sociale la guida principale, e il problema è proprio la noncuranza con la quale si operano scelte profondamente sbagliate che poi si ripercuotono inevitabilmente sui nostri fruitori.
Per questo io dico “In televisione la qualità prima di tutto: non solo Auditel, sì al Qualitel”: non perché non voglio che ci sia rilevazione degli ascolti, ma perché ne voglio di più ( mancano, ad esempio, i dati provinciali), più ricche e soprattutto più articolate, più in favore dei cittadini.

L’alternativa alla dittatura dell’Auditel è una realtà: Qualitel permette di rinforzare le garanzie di veridicità dei dati, tenendo conto delle caratteristiche sociologiche dei fruitori, in modo che il giudizio dell’Auditel abbia in nuce anche un elemento qualitativo o di gradimento.
Non chiedo che il ruolo svolto dall’Auditel venga sminuito: è bene che l’Auditel conservi la sua funzione di metro degli ascolti in base ai quali vengono fatti i contratti pubblicitari, ma è necessario che a fianco a questo ci sia una attenta verifica della qualità del prodotto.
E’ chiaro che se questa operazione vale come monitoraggio misurazione della qualità, è importante che a monte diventi un orientamento editoriale: bisogna cominciare a porsi il problema non solo di grandi ascolti, ma anche di qualità degli ascolti.
Se si innesta un circolo virtuoso, per cui le produzioni, sapendo che c’è il Qualitel, dall’inizio scelgono i contenuti da trasmettere in un certo modo, questo diventa un passaggio importante e significativo per tutti noi.
Per farlo, è bene confrontarsi con l’efficacia dei messaggi televisivi, conoscendo l’ampiezza e la composizione dei diversi pubblici, per attribuire loro pesi di marketing, e fare scelte editoriali.
Come fare a misurare in concreto il Qualitel? Le proposte stanno per prendere consistenza.

Si terrà conto di come la gente ha valutato dal punto di vista qualitativo quel programma in oggetto, fino a rilevare le motivazioni soggettive che spingono l’utente a fare quella scelta, sulla soddisfazione di una produzione, sulle aspettative diverse del fruitore.
L’obiettivo è quindi rendere protagonista il telespettatore, che interagisce e fornisce una serie di ampie valutazioni su ciò che vede in tv. Il campione, inoltre, si prospetta ampio e variegato: con l’avvento della tv digitale avremo a disposizione un pubblico straordinario, una platea infinita, che potrà orientare il nostro modo di lavorare.
Il tutto su un doppio binario: un sistema di rilevamento tradizionale “ face to face”, e un sistema via internet, attraverso spazi appositi (siti) che permetteranno di avere a disposizione un sistema di rilevazione costante, che allargherà la partecipazione dell’utente.
E’ chiaro che non si prevederanno sanzioni per coloro che avranno un indice Qualitel basso, o non si penalizzerà chi sceglie di intraprendere percorsi non in linea con questi valori: ognuno è libero di fare ciò che vuole, ma perchè arrendersi all’idea che sia l’Auditel il tribunale dei giudizi, e invece non rendere il campione stesso giudice delle scelte future?
Qualitel significa ampliamento, e non annientamento dell’Auditel.

Al di là della concreta realizzazione di questo importante risultato, alcune televisione locali scelgono di offrire uno specifico orientamento alla comunicazione: sono le televisioni “Indies”, termine da me coniato con cui intendo riferirmi ad un modello di televisione che coniuga l’innovazione e la tradizione, che si pone al passo con i tempi, ma nella direzione di una decisa e più accanita difesa dei valori identitari che ci appartengono, contro la sempre più incalzante omogeneizzazione culturale.
A differenza delle televisioni “omologate”, che puntano per lo più su format globalizzati, fanno poca autoproduzione, hanno spazi creativi ridotti, ci propongono, quindi, format in cui dominano programmi televisivi prodotti dalle grandi multinazionali americane (soap opera, reality show, wrestling), giapponesi (cartoni animati), brasiliane (telenovelas), o in alternativa programmi che scimmiottano i format dei network internazionali, che non fanno altro che deprimere la nostra creatività e la nostra fantasia.
Contrariamente a questa tendenza la televisione “Indies” punta su autoproduzioni di qualità, creando una “family tv” capace di regalare momenti di interesse per tutti i componenti della famiglia, ma che soprattutto si inserisce in una scelta strategica che rifiuta l’omologazione, sentendo forte ogni giorno la responsabilità sociale che gli strumenti di comunicazione hanno nei confronti dei propri fruitori. Questa scelta richiede senza dubbio sforzi maggiori, impegno notevole, costi elevati (apparecchiature, personale addetto …), ma è vero anche che i suoi effetti inevitabilmente si riverberano positivamente in ambito economico: si crea forza lavoro, si costruiscono professionalità, si lascia spazio ai talenti locali, alla meritocrazia, creando opportunità di realizzazione per i nostri giovani, contro la sempre più pressante “fuga di cervelli”.

Il nostro impegno è insomma quello di cogliere gli aspetti positivi della globalizzazione (standard qualitativi, impianti tecnici, innovazioni tecnologiche, tecniche di montaggio, grafica, linguaggio …) e di farli sposare con i valori della nostra comunità, con la nostra identità: glocal, attraverso una stretta connessione tra globale e locale.
Rifacendomi alla sociologia, il nostro obiettivo è un tentativo di opporci al “media imperalism” (John B. Thompson), e di ribattezzare il concetto di “indigenizzazione” (Arjun Appadurai), da cui televisione “indies”, per significare l’impegno da parte delle singole e diverse società locali ad appropriarsi e rielaborare le forme e le espressioni delle altre culture con le proprie specificità.
Non sono i dati Auditel la priorità, non basiamo il nostro lavoro solo su “freddi” numeri, benché i risultati in termini di consenso possano essere strepitosi: ci si deve discostare dai modelli di televisione “trash” che dominano invece incontrastati i palinsesti quotidiani, e attraverso un impegno culturale e assiduo, proporre contenuti validi e formativi.
E’ l’identità, è il forte radicamento sul territorio la chiave di successo, e la base di lavoro si chiama Qualitel, che non registra semplicemente gli indici di ascolto, ma gli indici di gradimento, il consenso del pubblico.
L’impegno, infatti, è quello di non trascurare mai la missione culturale che ci si è impegnati a svolgere, non si mira ad avere un pubblico solo numeroso, ma ad averlo fedele, soddisfatto, in base al target di riferimento. L’Auditel non è l’unico elemento su cui poter basare la forza di una emittente televisiva: i telespettatori scelgono, e questa è la vera soddisfazione per chi svolge questo lavoro.

E’ bello pensare al proprio pubblico non come un gruppo di individui anonimi e passivi che equivalgono a un certo numero di contatti pubblicitari, ma ad individui reali, dotati di un volto, un nome e una storia, a noi fedeli, che ogni giorno possano riconoscersi in questo modo di fare televisione.
Chiunque guardi la tv fa bene a cercare ciò che gli piace, ma non sempre una cosa vista da molti a quei molti è piaciuta e lascia il segno: chi guarda e sente la televisione non ha niente da raccontare, chi la vede e la ascolta può imparare tanto, ed è a questo tipo di pubblico che noi ci rivolgiamo.
L’Auditel non è un dogma: impegniamoci a guadagnare la dignità di essere credibili, non per un puro atto di fede, ma sulla base di una scelta consapevole…

(pubblicato su Espresso Sud e Millecanali)

di Paolo Pagliaro

Lecce, 10 gennaio 2008